Filosofia: Europa – tra Edmund Husserl ed Emanuele Severino.

Sentire continuamente chiamare in causa le differenze religiose tra il Cristianesimo e l’Islam, citate spessissimo ed esplicitamente come chiave di lettura privilegiata della contrapposizione tra Occidente e Paesi Islamici (dal ritornello “Ma anche noi abbiamo fatto le crociate!”, fino a chi si appella costantemente ad i valori dal Cristianesimo propugnati come baluardo della nostra civiltà), mi pare, stante la situazione attuale – e principalmente per quel che concerne il terreno culturale-filosofico dal quale essa germina – perlomeno piuttosto inadeguato.
E, essendo scopo delle pagine di questo blog, come più volte richiamato e dichiarato, quello di tentare di fare chiarezza su determinate tematiche cruciali; essendo questa, come spero abbia potuto dimostrare il lavoro compiuto con Massimo Campanini, una questione di rilevanza fondamentale; ho deciso di occuparmi, per questo pezzo, di una domanda sì immane, ma che non per questo deve essere lasciata a se stessa. Che cos’è l’Europa?

Il lavoro concettuale che si sta tentando qui di compiere attorno alla Tecnica e, assieme, il discorso in merito all’Islam, non possono giammai essere separati, facendo in realtà per me parte di un unico, grande progetto.
L’emergere pressante di una alterità (con tutte le problematicità teoretiche che questo concetto, in generale ed in questa specifica situazione, si porta appresso) esige, difatti (sin dall’inizio del percorso vitale dell’Occidente), un’interrogazione, un’analisi della propria identità. Come magistralmente afferma Massimo Cacciari, in relazione alla sforzo definitorio compiuto dalle popolazioni Greche innanzi all’avanzata dell’esercito Persiano:

«Questo Due, questo “inaudito” molteplice, è ora problema, da pensare, da conoscere, da risolvere. Ma per pensarlo sarà anzitutto necessario conoscere se stessi. […] Senza sapere la propria identità, risulterà impossibile affrontare l’Altro. Se non conosceremo il nostro nome, il procedere dell’Altro ci travolgerà […]. Bisogna definirsi: afferrare il proprio carattere, stabilirne la ‘divina’ saldezza. È proprio affermando la mia differenza con l’altro, la mia singolarità, che io sono con lui – anzi, che io sto, che stando necessariamente mi oppongo a ciò che mi sta di fronte a sua volta (stasis), e che in questo confronto, in questa contesa, mi riconosco con lui. L’altro diviene inseparabile. Cum. La mia “libertà” da lui è la mia “amicizia” con lui. Per poterlo ospitare dovrà essermi hostis. Nessuna armonia mai sarà astratto superamento della differenza, e nessuna differenza è affermabile come astratta negazione dell’armonia» (pp.12-16). (1)*

Già Edmund Husserl assegnava alla filosofia un ruolo fondativo nei confronti dell’umanità europea. «La fondazione originaria della nuova filosofia», afferma il Nostro ne La Crisi delle Scienze Europee e la Fenomenologia Trascendentale (2), «coincide […] con la fondazione originaria dell’umanità europea moderna, di un’umanità che, attraverso la filosofia, e soltanto attraverso la filosofia, vuole rinnovarsi radicalmente rispetto a quella precedente» (p.41). E questo poiché, per Husserl, il recupero della filosofia greca antica nel Rinascimento europeo ha determinato un vero e proprio «rivolgimento rivoluzionario» (p.37) nei confronti dei «precedenti modi d’esistenza» (ibid.), riprendendo quella che, per il Nostro, è la stessa essenza dell’antica «forma “filosofica” dell’esistenza» (ibid.) per come recuperata in ambito rinascimentale: «la capacità di dare liberamente a se stessa [esistenza], a tutta la propria vita, regole fondate sulla pura ragione, tratte dalla filosofia. La prima cosa è la teoresi filosofica. […] All’autonomia teoretica succede quella pratica» (ibid.). Sempre stando al testo della Krisis: recuperata nell’età moderna, l’idea di filosofia mantiene formalmente «il senso di scienza onnicomprensiva, [… che] persegue nientemeno che lo scopo di riunire scientificamente nell’unità di un sistema teoretico tutte le questioni ragionevoli attraverso una metodica apoditticamente evidente e attraverso un progresso infinito ma razionale di ricerca» (p.38).

Ciò che qualifica l’Europa, husserlianamente, sta proprio ed appunto in questo «scopo». L’umanità europea è designata come tale per il suo fine, il suo «telos innato» (p.44). Al di là dei confini geografici, l’umanità europea è, più che altro, per il Nostro, un luogo del pensiero, un ambito concettuale: in altre parole, per Husserl la filosofia è l’essenza dell’Europa – la filosofia nella sua teoreticità (come ricerca disinteressata della verità) e nella sua azione pratica su questa teoresi fondata (dunque, nel suo essere teoresi eticamente responsabile). Il «telos […] innato nell’umanità europea dalla nascita della filosofia greca», scrive sempre nella Crisi, «[…] consiste nella volontà di essere un’umanità fondata sulla ragione filosofica e sulla coscienza di non poterlo essere che così, – nel movimento infinito dalla ragione latente alla ragione rivelata e nel perseguimento infinito dell’auto-normatività» (ibid.).
La collocazione di questa fondazione filosofica dell’Europa nel testo della Crisi è chiara. «Il concetto fondamentale della nostra esposizione», così lo definisce lo stesso Husserl, sta in questo: «la “crisi dell’esistenza europea” di cui oggi tanto si parla non è un oscuro destino, una situazione impenetrabile; essa diventa comprensibile e trasparente sullo sfondo di quella teleologia della storia europea che la filosofia è in grado di illuminare» (p.357-358). Ma, per ottenere tale illuminazione, per Husserl è necessario innanzitutto comprendere «il nucleo essenziale e centrale del fenomeno “Europa”», e tale “nucleo essenziale” consiste proprio in una «teleologia storica di fini razionalmente infiniti» (p.358). «Il mondo europeo», scrive il Nostro, «[nasce] da idee razionali, cioè dallo spirito della filosofia» (ibid.).

«Edmund Husserl», scrive il suo grande allievo Jan Patocka, «parla della storia europea come di un nesso teleologico il cui asse è costituito dall’idea della contemplazione razionale e della vita che si fonda su di essa… Secondo Husserl, la cultura europea si differenzia da tutte le altre per questa idea teleologica. L’idea della vita originata dalla ragione, dalla contemplazione razionale, solleva l’Europa al di sopra delle altre culture, come unica essenziale fra tante casuali. L’evidenza della contemplazione razionale è l’idea “innata” dell’umanità, cosicché lo spirito europeo è anche lo spirito umano in generale.» (3) (p. 51).
«È certo vero che la guerra [la seconda guerra mondiale, che, afferma sempre Patocka, «ha tolto definitivamente di mano all’Europa la guida del mondo» (ibid.), nota mia] ha fatto della scienza e della tecnica europee il tessuto connettivo del pianeta. Ma la civiltà europea è divenuta questo tessuto connettivo proprio in quella versione che La Crisi delle Scienze Europee [vale a dire nella versione scientistica, oggettivistica-fisicalistica, nota mia] ha dimostrato essere decadente, poiché in essa si è perduto il senso, cioè quell’idea teleologica capace di conferire un senso, in cui, secondo Husserl, consiste l’intima essenza spirituale dell’Europa» (p. 52).

La storia husserliana, tuttavia (evidenzia sempre Patocka), nel piano più profondo di contenuti cui la fenomenologia può attingere «conosce soltanto le strutture afferrabili dalla riflessione di uno spettatore imparziale, disinteressato… Se quindi il fenomeno della fenomenologia, e cioè il fenomeno profondo, non quello “volgare” di ciò che si mostra da sé, ma quello dei suoi presupposti nascosti, che lo rendono possibile, risiede nella genesi trascendentale, bisogna ammettere che la possibilità di afferrarlo presuppone una soggettività fondamentalmente “astorica”, perché disinteressata. Con ciò inoltre concorda il concetto di riflesione, che cogli le strutture soggettive come rivolgimento dello sguardo oggettivante “verso l’interno”, verso l’esperienza vissuta, verso l’aspetto “noetico”, come se la struttura d’atto, dalla quale è stata originariamente derivata la contrapposizione “noesi-noema”, fosse valida per tutti i fenomeni in generale e come se l’intenzionalità fosse l’ultima parola che possa esser detta sulla soggettività del soggetto» (p. 53).

A questo pensiero filosofico, a questa fenomenologia, Patocka contrappone quella heideggeriana. «La concezione di Heidegger, per contro», afferma infatti il Nostro «è storica non soltanto nel senso che l’analisi fenomenologica conduce a una determinata genesi, ma soprattutto perché tale concezione non soltanto rifiuta lo spettatore disinteressato [proprio della fenomenologia trascendentale husserliana, nota mia] come presupposto della possibilità della fenomenologizzazione, ma indica al contrario l’essere interessato all’essere quale punto di partenza e condizione di possibilità di comprensione del fenomeno profondo, cioè del fondamento dell’essere» (ibid.). Stando quindi per Patocka (dato quanto poc’anzi schematicamente affermato) la fenomenologia husserliana al primato dell’intelletto come quella heideggeriana al primato della libertà, «Heidegger», per il Nostro, risulta essere «il filosofo del primato della libertà… ai suoi occhi la storia non è una rappresentazione teatrale che si svolge sotto i nostri occhi, ma una responsabile realizzazione di quel rapporto che è l’uomo. La storia non è una visione, ma una responsabilità. Però la libertà non è da lui intesa come liberum arbitrium, né come liberazione dal compimento del dovere, ma in primo luogo come libertà di lasciare l’ente così com’è, come libertà di non deformare l’ente» (p.56). E questo è, nell’interpretazione del pensiero heideggeriano data dal Nostro, un «vero sconvolgimento di ciò che, innanzitutto e perlopiù, viene inteso come essere, e quindi del suo stesso senso» (ibid.). «Il disvelamento dell’essere è l’esperienza da cui nasce la filosofia, è il tentativo continuamente rinnovato di vivere nella verità. La libertà è in definitiva libertà della verità, e ciò sotto l’aspetto dell’essere allo scoperto dell’essere stesso, della verità dell’essere, e non soltanto degli enti. La libertà… significa sostanzialmente che l’essere stesso è finito e va cercato nello sconvolgimento di tutte le “certezze” ingenue, le quali tentano di trovare la propria dimora negli enti per non dover confessare che l’uomo non ne ha alcuna, se si eccettua ciò che tutto rivela e libera, e che pertanto non può “essere” allo stesso modo degli altri enti: l’essere e il suo mistero e il miracolo che l’ente sia» (ibid.). Ma «il disvelamento dell’essere stesso… si effettua nella filosofia e nella sua più originaria, più radicale interrogazione. Questo disvelamento produce necessariamente un mutamento non solo nella regione degli enti accessibili, ma anche nel mondo di una determinata epoca. Dalla nascita della filosofia la storia è, anzitutto, la storia interna del mondo come essere differente dall’ente e che tuttavia gli appartiene, in quanto essere dell’ente» (pp.56-57).

Insomma, si chiede Patocka: «Dove risiede l’accordo tra le concezioni della storia di queste due filosofie, peraltro così profondamente diverse?» (p. 57). Innanzitutto, nel fatto che, nonostante la diversità dei punti di partenza del loro filosofare, Husserl ed Heidegger giungono «all’idea della posizione centrale che la filosofia occupa nella storia. E poiché entrambe [le filosofie di Husserl ed Heidegger] intendono per filosofia quella occidentale, entrambe giungono alla conclusione della centralità dell’Europa nella storia» (ibid).

Un’altra grande voce, tuttavia, ha voluto spingersi ancora oltre, ripensando in maniera differente la fondazione filosofica dell’Europa, ed in senso spesse volte ancora più radicale (addirittura per certi versi opposto) rispetto a quanto proposto dai pensatori summenzionati. Trattasi della voce di Emanuele Severino. «La pretesa di Severino», afferma uno dei grandi allievi del Nostro, Massimo Donà, in una introduzione alla filosofia del Maestro (4), «è quella di sviluppare non una tra le tante analisi della filosofia occidentale, ma di aver individuato un destino che l’Occidente avrebbe incarnato. Un destino che consente a Severino di definire questa vicenda, […] dalla metafisica alla scienza moderna e contemporanea, come follia. Questa vicenda, nella sua coerenza, e dunque nella sua destinalità, rappresenta per Severino il destino della follia».

Severino ritiene difatti che essenza dell’Europa (concettualmente, ma non solo), confermata in ogni grande e piccolo evento pratico e di senso delle vicende europee, sia la volontà isolante nella sua espressione ontologica.
Tentando di definire più specificamente questo concetto: l’“isolamento” è ciò per cui si agisce. Se non si fosse convinti di poter manipolare una parte isolata della realtà; se si fosse convinti che un qualcosa non fosse isolabile e scindibile dal contesto e dalla concreta situazione in cui si trova, allora non si agirebbe nemmeno. A caratterizzare l’azione e la riflessione europea, tuttavia, sta una ben precisa interpretazione dell’isolamento inteso in tal guisa: ossia quell’interpretazione che fa capo alla concettualizzazione greca antica e, nello specifico, alla riflessione sul senso dell’essere, del niente e del divenire.
Ogni agire si basa sull’isolamento. Ma l’agire greco costituisce, sulle fondamenta concettuali del discorso ontologico, l’isolamento più radicale che mai sia stato pensato e vissuto dall’uomo. L’Europa ha al suo fondamento, cioè, quella specifica forma di isolamento che appare a partire dalla riflessione ontologica greco antica. «La volontà isolante, che appartiene all’essenza della fede greca nel divenire, è l’aprirsi stesso della dimensione unitaria in cui si manifestano e prendono senso tutti i grandi eventi che costituiscono la storia europea. L’Europa è quella specifica volontà di separazione e divisione che appare con la riflessione greca sul senso dell’essere, del niente e del divenire», scrive Severino in La tendenza fondamentale del nostro tempo (5) (p.125).

Se vi è un qualcosa di identico in tutte le formazioni pratiche e di senso dell’Europa, e dunque l’elemento comune di esse, è proprio questo, seguendo il Nostro: l’aderenza all’interpretazione greca del divenire delle cose. Tale interpretazione, tale fede è, di fondo, la persuasione che l’ente sia niente. L’Occidente, cioè, scaturisce da un terreno, sul quale muoverà poi i propri passi: quello costituito dal senso greco del divenire – quel senso che va imponendosi con sempre maggiore coerenza a partire dai primi commentatori di Parmenide (il primo a portare alla luce il senso di Essere e Niente, ma i primi commentatori del quale, per tener ferma la «ben salda verità» della ragione, la quale afferma che «l’essere è mentre il nulla non è», negano l’esistenza reale del molteplice), passando per il fondamentale contributo platonico (cfr. Repubblica, 476d-480a), per il quale contributo il mondo sensibile è posto come un qualcosa «che in un certo senso è e non è insieme, […] intermedio fra ciò che puramente è e ciò che del tutto non è».
Essendo perciò un oscillare tra l’essere ed il nulla, ossia provenendo dal nulla ed al nulla facendo ritorno (ossia passando dal “non essere ancora” al “non esser più”), l’ente è difatti, per l’Occidente, isolato dall’essere (dal suo concreto essere), dalla sua concreta connessione con tutti gli altri enti, con i quali non può stabilire alcun legame (pena la sua entizzazione) prima di venire all’essere e dopo esservisi dileguato, costituendosi dunque e sempre come novità assoluta nel suo irrompere. Sempre con le parole del Nostro: «Il senso greco dell’agire include la persuasione che il divenire del mondo sia un venire dal niente e un andare nel niente da parte delle cose. Il loro “oscillare” (epamphoterizein, dice Platone […]) tra l’essere ed il niente. Questa persuasione è l’autentica e decisiva demarcazione nella storia dell’uomo, qualcosa cioè di radicalmente più essenziale di ogni connotazione di tipo sociologico, etnologico, religioso, come quelle che vedono la svolta decisiva della storia nella comparsa di un “salvatore”, o nel passaggio dalla società matriarcale a quella patriarcale» (p.121).

Ma, date queste premesse, si impone presto alla vista la tendenza fondamentale del nostro tempo nel suo carattere destinale: la distruzione ed il superamento di ogni immutabile (ed il conseguente affermarsi dell’agire tecnico-scientifico come la più compiuta espressione di tali premesse). Questa è la potentissima notizia della filosofia contemporanea, che è difatti animata dalla consapevolezza che, posto il divenire del mondo (in senso ontologico: passaggio dal nulla all’essere e viceversa da parte dell’ente) come l’evidenza originaria, nessun Essere supremo, nessun Senso Ultimo possa essere in grado di prevedere e precontenere, padroneggiandolo, il divenire così inteso (illuminanti, da questo punto di vista, possono essere le pagine che Giovanni Gentile dedica al tema della previsione nella Teoria Generale dello Spirito come Atto Puro, cfr. cap. XII: Previsione e libertà).
«Nel pensiero greco l’agire acquista una radicalità estrema, che da un lato è dovuta alla radicalità dell’isolamento e dall’altro alla persuasione che questo senso radicale dell’agire sia il contenuto di un sapere incontrovertibile (p.120). […] La volontà di isolare le cose incomincia nel sottosuolo […] del pensiero greco, e rimane a lungo nel sottosuolo e nella cultura delle società europee, perché la volontà esplicita del pensiero greco è, all’opposto, di unificare la molteplicità del mondo. […] Nella filosofia greca», culla e terreno dell’occidente, «la volontà di unificazione è la volontà di conoscere il Senso unitario e definitivo del mondo. La volontà di unificare il molteplice che oscilla tra l’essere e il niente è l’anima di tutti i grandi eventi della tradizione europea, dall’Impero Romano alla Chiesa Universale […], all’unificazione del mondo da parte del capitalismo e all’unificazione dei lavoratori da parte del marxismo» (p.120-123). Dio, il Senso ultimo, la Verità stabile, è proprio questo per la tradizione metafisica occidentale: il padrone del divenire del mondo, che unifica un molteplice pensato ab ovo come un oscillare tra l’essere ed il nulla. Ma, se si vuole affermare il divenire del mondo come sopra inteso, la coerenza stessa di questa affermazione esige la “morte di Dio”. Il sillogismo è potentissimo:

  1. Le cose provengono dal nulla e nel nulla ritornano. C’è dunque un tempo in cui l’ente è niente;
  2. Ma questo niente, che l’ente è prima di venire all’essere e che l’ente è dopo essersi dileguato da esso, in Dio (in quanto precontiene e predetermina ciò che ancora non è) è “entificato”;
  3. La coerenza di questo discorso esige che, se si vuole che l’ente sia ente ed il nulla sia nulla, Dio, come ciò che rende ente (entifica) il nulla nel suo predeterminare e precostituire, debba essere tolto.

Sempre da La Tendenza fondamentale del Nostro Tempo: «Questa volontà di unificazione è destinata al fallimento, perché si fonda sulla fede greca del divenire, e questa fede è il principio stesso della forma estrema dell’isolamento. […] Ognuna di queste unificazioni presenta sé stessa come Senso definitivo ed immutabile della realtà e della storia, ma tale Senso pretende unificare ciò che viene originariamente assunto come oscillazione tra essere e niente, e quindi come non unificabile, come molteplicità essenzialmente irrelata, che prima o poi fa sentire l’illusorietà di ogni sintesi che presuma conferire al molteplice una unità definitiva» (p.123)

Seguendo l’argomentazione severiniana, e riprendendo le premesse dell’articolo: difficile negare al Cristianesimo il ruolo di grande forza della tradizione – un ruolo che ha rivestito e che tutt’ora titanicamente riveste –, come sarebbe altresì sbagliato negare l’apporto che ha dato e continua a dare alla nostra civiltà. Ma di certo questo ruolo non è oggi, in Occidente, e sempre meno lo sarà, egemonico. Pretendere che il Cristianesimo rappresenti del tutto la civiltà occidentale è sbagliato e deleterio. Non comprendere la valenza che l’Islam possiede nei Paesi Islamici, lo è altrettanto.
Oggi l’Islam e le forze e le fedi che guidano un Occidente sempre più secolarizzato (Democrazia, Capitalismo…) vanno scontrandosi con il Cristianesimo e tra loro (in quanto tra loro differiscono essenzialmente per gli scopi che vogliono raggiungere), andando tutte via via ponendosi destinalmente al servizio di quella tecno-scienza della quale ora vogliono servirsi per prevalere le une sulle altre – il tutto, verso la “civiltà della tecnica” intesa come il momento di massimo dispiegamento e coerenza del pensiero isolante, e quindi come momento di piena coerentizzazione dell’Occidente rispetto ai suoi stessi presupposti. «Se la tendenza fondamentale oggi esistente sulla terra è il prevalere dell’organizzazione scientifico-tecnologica sull’organizzazione ideologica dell’esistenza», osserva ancora Severino, «ossia è sostanzialmente il prevalere della scienza sulla filosofia, il significato essenziale di questa tendenza è la destinazione della volontà di “verità” […] al tramonto nella razionalità scientifico-tecnologica. […] “Destinazione” significa che nella volontà di potenza scientifico-tecnologica resta tolta la contraddizione che, nella volontà di “verità” [la verità della tradizione metafisica, il Senso ultimo di cui sopra, nota mia], entifica il niente e cancella il futuro. […] La distruzione degli immutabili – il liberarsi da essi – libera il divenire e l’agire. L’Apparato scientifico-tecnologico è la dimensione in cui questa distruzione-liberazione è sviluppata sino alle sue possibilità estreme» (pp.59-60). Islam, Cristianesimo, Democrazia, Capitalismo, come forze della tradizione, sono forme di fedi. Sono, cioè, volontà che il mondo vada in un modo piuttosto che in un altro. E, in quanto non sanno valere come incontrovertibili (sono cioè tali che la loro negazione resta pur sempre possibile – la loro negazione, cioè, non è un togliersi da sé), il loro imporsi è di per sé violenza e prevaricazione. «Il cristianesimo è una fede, cioè volontà che il mondo vada in un modo piuttosto che in un altro. Fede è, di per sé, volontà di potenza: la fede è un valore storico che sorge e tramonta. […] Se il mondo non ha un senso definitivo e incontrovertibile, ciò che rende valore un valore non è altro che la sua forza di valere contro altri valori. Vale perché vince. Soltanto perché vince. La vittoria e il dominio sono la violenza riuscita. La violenza è qualcosa di negativo solo se esistono limiti inviolabili. Ma come potrebbe esserci un limite inviolabile se non esiste un senso immodificabile del mondo? Non esistendo questo senso, tutto è violabile. La violenza è qualcosa di negativo solo se fallisce», scrive il Nostro in La Strada: la follia e la gioia (6) (pp.23-24).

Certo: tutto questo discorso, come affermavo inizialmente citando Donà, rappresenta per Severino il “destino della follia”. Ma Severino può soltanto affermare ciò a partire da una dimensione altra, ossia dal di fuori del nichilismo (e cioè al di là dell’Occidente stesso). E, «al di fuori del nichilismo, la verità è l’apparire dell’eternità di ogni essente» (7) (p.184), l’apparire dell’esser sé di ogni essente. Originaria è l’unità dell’essente e del suo altro, e l’eternità dell’essente in quanto tale è la relazione originaria che esclude l’isolamento dell’essente, affermando di esso la sua concreta identità. «Al di fuori del nichilismo il sopraggiungere dell’ente [il divenire] è il comparire e lo sparire dell’eterno. […] L’oscillazione dell’ente tra l’essere e il niente è la follia estrema, l’orrore estremo» (pp.184-185).

Questa ultima considerazione, tuttavia, oltre che per un’esigenza interna di argomentazione, risulta per me particolarmente interessante anche in quanto mi pare possa esprimere un invito fondamentale. Comprendere l’essenza filosofica dell’Europa, cioè, financo nella maniera problematica che già soltanto le voci (estremamente emblematiche) proposte in questo articolo presentano, significa aver innanzi a sé il cuore di un fenomeno ampio e complesso. Ciò non vuol dire di certo ed immediatamente il poter padroneggiare con facilità tale fenomeno nella sua interezza e complessità: lungi da ma questa asserzione. Tuttavia, la comprensione del fondamento di questa entità può, a mio avviso, gettare una luce più chiara su di essa e sulle sue vicende, aiutando (per contro) a restituire alla sua costitutiva complessità uno sguardo critico ed acuto, in quanto uno sguardo siffatto capace di guadagnare una giusta e sana distanza da tale complessità – una distanza, che permetterebbe appunto l’osservazione attenta della varietà e della difficoltà del fenomeno.

Simone Picenni.

  1. MASSIMO CACCIARI, Geofilosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 2008.
  2. EDMUND HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, [trad. di] Enrico Filippini, Il Saggiatore, Milano 2008.
  3. JAN PATOCKA, Saggi eretici sulla filosofia della storia, [trad. di] Mauro Carbone, Einaudi, Torino 2008.
  4. https://www.youtube.com/watch?v=zb_9w4LXyro 
  5. EMANUELE SEVERINO, La tendenza fondamentale del nostro tempo, Adelphi, Milano 2008.
  6. EMANUELE SEVERINO, La strada: la follia e la gioia, Rizzoli, Milano 2008.
  7. EMANUELE SEVERINO, La tendenza fondamentale del nostro tempo.

*I rimandi alle pagine delle opere citate sono segnalati direttamente sul testo dell’articolo, e riferiti all’opera citata a piè di pagina sino ad indicazione contraria.

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Simone Picenni

Filosofo di formazione, studio Logica matematica e storia e filosofia della scienza a Firenze.

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