La mia separazione dalla Chiesa Cattolica – Risposte ai miei critici

Il presente articolo nasce, in quanto occasione, come risposta ad alcune critiche, provenienti da più voci, levatesi contro il mio articolo La mia separazione dalla Chiesa Cattolica. Per una questione di opportunità e rispetto nei confronti degli autori delle stesse, ho preferito non citare direttamente il testo delle critiche che mi sono state poste per iscritto, lasciando, in primis, che un documento eminente della cattolicità, l’enciclica Fides et Ratio di Giovanni Paolo II (in quanto, assieme alle encicliche Humani Generis Redemptiones di Benedetto XV e Humani Generis di Pio XII, mi è parsa la più adatta ad esercitare tale compito) (1), assumesse nel presente testo la responsabilità di espletare l’ingrata funzione di esprimere le critiche succitate; e, in secundis, cercando (al contempo) di riassumere come possibile, sperando di non averlo snaturato, il senso delle contro-argomentazioni dei miei critici.

Data la natura del presente scritto, dunque, non posso che dare come presupposta la lettura del mio articolo in questione, rinvenibile comunque al seguente link:
https://paradisiartificiali2015.wordpress.com/2015/02/27/la-mia-separazione-dalla-chiesa-cattolica/
Stante questa premessa, tuttavia, ho tentato di rendere la mia esposizione la più intelligibile possibile anche per chi non avesse presente l’articolo poc’anzi citato.

Indico immediatamente i punti che verranno toccati nel presente articolo per dar la possibilità a chi lo volesse di dedicarsi già da ora ad alcune tematiche specifiche. La risposta si articolerà, dunque, in tre sezioni pressoché autonome, di cui:
• La prima, Fede e ragione, ragionevolezza e miracoli, chiarisce nuovamente il significato dell’armonia di fede e ragione, per tentare infine di dare uno sguardo critico al senso del miracolo;
• La seconda, Rivelazione e mistero, tenta di far luce sul fondamento fideistico dell’affermazione che la fede cristiana è rivelazione divina, traendone due conseguenze – la prima relativamente all’oscillazione della posizione della Chiesa rispetto al pensiero filosofico, la seconda sul senso della decisione nell’ambito della fede (religiosa);
• La terza tenta di rispondere alla domanda Possono delle posizioni filosofiche far rinunciare ad una fede?


  • Fede e ragione, ragionevolezza e miracoli.

L’Enciclica Fides et Ratio (2), di Giovanni Paolo II (datata 14 Settembre 1998), non si differenzia, come contenuto, da quanto nel mio articolo ho schematicamente attribuito all’atteggiamento della Chiesa: se non può esserci contrasto tra fede e ragione (per quanto detto; per quel che anche Tommaso afferma) (3), quando la ragione smentisce la fede, allora non è una vera ragione, ma è un uso superbo della ragione, è cattiva filosofia. Per Tommaso si tratta di «ragioni solo dialettiche, o addirittura sofistiche» – con tutto ciò che da questa posizione consegue. Tommaso potrebbe essere, a questo riguardo, un esempio necessario e sufficiente, tanto che la stessa enciclica di Giovanni Paolo II assegna all’Aquinate un posto di primo rilievo rispetto al tema, dedicandogli i paragrafi 43-44, titolati «La novità perenne del pensiero di Tommaso», e Benedetto XVI cita quella di Tommaso in merito al rapporto ragione/fede come «la […] grande opera» dell’Aquinate (4).

Ma vi è una grandissima problematica (che anche nell’Enciclica succitata, nei modi e nei termini propri di essa, è ravvisata): tutto questo discorso si costituisce previa accettazione della rivelazione cristiana cattolica come una verità soprannaturale. È all’interno della fede che questo discorso si costituisce (è un atto di fede, un “postulato” – dicevo). È cioè dal punto di vista del credente che Dio dà una fede, e la dà in modo tale che questa fede non sia falsità o errore.

Può un cristiano cattolico rinunciare a porsi in questi termini nei confronti della ragione? Può non volere che tra ragione e fede debbano intercorrere proprio quei rapporti evidenziati dalla Chiesa nella dottrina dell’armonia di ragione e fede? A mio avviso, la risposta non può essere che no. Certo, grandi pensatori come Tertulliano, Kierkegaard e Dostoevskij (ognuno a suo modo) ritengono che la fede debba essere accettata proprio in quanto assurda – movendosi, dunque, in direzione diversa rispetto a quella evidenziata. Tuttavia, mi pare che la posizione della Chiesa Cattolica (Fides et Ratio compresa), sia profondamente differente.
Ma (e ciò è essenziale), come dicevo nell’articolo: « [il messaggio evangelico-cristico è, di fatto] Ciò che è insegnato dalla Chiesa, cui Gesù ha affidato il compito e l’autorità carismatica di predicare la buona novella, sì che l’interpretazione ecclesiastica dei testi sacri, compiuta per mezzo di tale autorità carismatica, rappresenta il vero senso del messaggio evangelico». La Chiesa vuole (e può) giudicare, secondo il carisma ricevuto, l’esatto senso della verità rivelata. Dunque, un cattolico, proprio in virtù dell’azione stessa di Gesù, non potrà giammai separare la credenza in Gesù come Figlio di Dio da ciò che la Chiesa dice attorno alla Buona Novella (dogmatica inclusa). Citando Giovanni Paolo II nella sua Fides et Ratio (§55): «Non mancano neppure pericolosi ripiegamenti sul fideismo, che non riconosce l’importanza della conoscenza razionale e del discorso filosofico per l’intelligenza della fede, anzi per la stessa possibilità di credere in Dio. Un’espressione oggi diffusa di tale tendenza fideistica è il “biblicismo”, che tende a fare della lettura della Sacra Scrittura o della sua esegesi l’unico punto di riferimento veritativo. Accade così che si identifichi la parola di Dio con la sola Sacra Scrittura, vanificando in tal modo la dottrina della Chiesa che il Concilio Ecumenico Vaticano II ha ribadito espressamente. La Costituzione Dei Verbum, dopo aver ricordato che la parola di Dio è presente sia nei testi sacri che nella Tradizione, afferma con forza: “La Sacra Tradizione e la Sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio affidato alla Chiesa. Aderendo ad esso tutto il popolo santo, unito ai suoi Pastori, persevera costantemente nell’insegnamento degli Apostoli”. La Sacra Scrittura, pertanto, non è il solo riferimento per la Chiesa. La “regola suprema della propria fede”, infatti, le proviene dall’unità che lo Spirito ha posto tra la Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa in una reciprocità tale per cui i tre non possono sussistere in maniera indipendente».

La fede cristiano-cattolica vuole, dunque, essere ragionevole. E che essa non debba essere considerata un insieme di “dotte favole” è una delle cose che Tommaso vuole premurarsi di dichiarare: «Prestando fede a codeste verità, che la ragione umana non è in grado di controllare, non si fa un atto di leggerezza, quasi “prestando fede a dotte favole”, secondo l’espressione di S. Pietro (II Piet., I, 16). Poiché la stessa sapienza divina, che tutto conosce in modo completo, si degnò di rivelare i suoi segreti agli uomini; mostrando il suo intervento e la verità del suo insegnamento e della sua ispirazione con argomenti adatti: confermando cioè cose che sorpassano la conoscenza naturale con opere visibili superiori alla capacità di tutta la natura [vale a dire, i miracoli – appunto]». (5)

Eppure, anche qui si annida una spinosa problematica: il fatto che sia accaduto qualcosa di estremamente improbabile o impossibile rispetto all’ordinario, non fa immediatamente dell’avvenimento in questione un segno divino del Dio rivelato della Religione Cattolica. Addirittura la stessa risurrezione di Gesù (ossia quel miracolo che, secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica, rispettivamente per CCC n.653 e n.651 (6), mostra «La verità della divinità di Gesù», che «è confermata dalla sua risurrezione», fornendo questa «la prova definitiva […] della sua autorità divina»; quel miracolo per cui Paolo può dire, in 1Cor 15, 14 e 1Cor 15,17: «Se Cristo non fosse risorto, vana sarebbe la nostra predicazione, e vana la nostra fede»), anche se fosse ammessa storicamente, non basterebbe di certo ad affermare immediatamente e come tale, data la sorte eccezionale di Gesù di Nazareth, il suo essere Dio, eterno, onnipotente, onnisciente, creatore del mondo.
Nulla ci vieta, peraltro, di pensare che un qualcosa di eccezionale in un dato momento storico non debba ripetersi con maggior frequenza in futuro. Laddove l’umana ragione e comprensione fossero anche limitate (cosa peraltro affermata dagli stessi cattolici), che il limite della comprensione umana debba essere immediatamente riempito dal contenuto della fede cristiano-cattolica (come, chiaramente, da quello di qualsiasi altra fede – che avrebbe altrettanto diritto di proclamare lo stesso) è asserto, ancora una volta, di fede – e, in quanto tale, il suo contrario resta pur sempre possibile. Il fatto miracoloso, come tale, non implica alcunché relativamente alla tematica dell’esistenza di un Dio unico, eterno, personale, creatore, onnipotente ed onnisciente, provvidente…


  • Rivelazione (7) e mistero.

Rimanendo ancora aderenti all’enciclica Fides et Ratio (§7, §11): «Alla base di ogni riflessione che la Chiesa compie vi è la consapevolezza di essere depositaria di un messaggio che ha la sua origine in Dio stesso (cfr. 2Cor 4, 1-2). La conoscenza che essa propone all’uomo non le proviene da una sua propria speculazione, fosse anche la più alta, ma dall’aver accolto nella fede la parola di Dio (cfr. 1Tess 2, 13). All’origine del nostro essere credenti vi è un incontro, unico nel suo genere, che segna il dischiudersi di un mistero nascosto nei secoli (cfr. 1Cor 2, 7; Rm 16, 25-26), ma ora rivelato: “Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e far conoscere il mistero della sua volontà (cfr. Ef 1, 9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura”. E, questa, un’iniziativa pienamente gratuita, che parte da Dio per raggiungere l’umanità e salvarla. Dio, in quanto fonte di amore, desidera farsi conoscere, e la conoscenza che l’uomo ha di lui porta a compimento ogni altra vera conoscenza che la sua mente è in grado di raggiungere circa il senso della propria esistenza. […] La rivelazione di Dio, dunque, si inserisce nel tempo e nella storia. L’incarnazione di Gesù Cristo, anzi, avviene nella “pienezza del tempo” (Gal 4, 4). A duemila anni di distanza da quell’evento, sento il dovere di riaffermare con forza che “nel cristianesimo il tempo ha un’importanza fondamentale” [Lett. ap. Tertio millennio adveniente (10 novembre 1994), 10: AAS 87 (1995), 11]. In esso, infatti, viene alla luce l’intera opera della creazione e della salvezza e, soprattutto, emerge il fatto che con l’incarnazione del Figlio di Dio noi viviamo e anticipiamo fin da ora ciò che sarà il compimento del tempo (cfr Eb 1, 2)».

L’affermazione che il contenuto della fede cristiano cattolica sia rivelazione divina, e quindi verità, è tuttavia essa stessa un atto di fede – dicevo. E, anzi, l’atto di fede principe: ciò che essa fede afferma, difatti, è soltanto una parte di quel contenuto. È il credente a credere che ciò in cui crede sia rivelazione divina. Soltanto a partire da questa fede, la vita cristiana può essere considerata un qualcosa di differente da “una scelta di vita tra altre”, o da un “sistema di pensiero tra altri”. 

Come ricorda la stessa enciclica (§13): «Non sarà, comunque, da dimenticare che la Rivelazione permane carica di mistero. Certo, con tutta la sua vita Gesù rivela il volto del Padre, essendo Egli venuto per spiegare i segreti di Dio; eppure, la conoscenza che noi abbiamo di tale volto è sempre segnata dalla frammentarietà e dal limite del nostro comprendere. Solo la fede permette di entrare all’interno del mistero, favorendone la coerente intelligenza. […] Insegna il Concilio che “a Dio che si rivela è dovuta l’obbedienza della fede”. Con questa breve ma densa affermazione, viene indicata una fondamentale verità del cristianesimo. Si dice, anzitutto, che la fede è risposta di obbedienza a Dio. Ciò comporta che Egli venga riconosciuto nella sua divinità, trascendenza e libertà suprema. Il Dio che si fa conoscere, nell’autorità della sua assoluta trascendenza, porta anche con sé la credibilità dei contenuti che rivela. Con la fede, l’uomo dona il suo assenso a tale testimonianza divina. Ciò significa che riconosce pienamente e integralmente la verità di quanto rivelato, perché è Dio stesso che se ne fa garante. Questa verità, donata all’uomo e da lui non esigibile, si inserisce nel contesto della comunicazione interpersonale e spinge la ragione ad aprirsi ad essa e ad accoglierne il senso profondo. E per questo che l’atto con il quale ci si affida a Dio è sempre stato considerato dalla Chiesa come un momento di scelta fondamentale, in cui tutta la persona è coinvolta». Da affermazioni di questo tipo discendono due conseguenze essenziali:

  1. Il credente è costitutivamente inquieto, in quanto l’intelletto, la ragione umana, non può che mantenersi in un atteggiamento estremamente problematico rispetto ai contenuti di fede (essendo la Rivelazione, fin nelle sue forme più essenziali, «carica di mistero»). La ragione naturale comprende che non può deliberare in merito alle cose divine, che la trascendono. Ma, proprio essendo la fede incapace, per questa costitutiva irrequietezza, di togliere la propria negazione,  allora è la stessa ragione naturale è comprendere che il contrario di quanto tenuto per fede resta pur sempre possibile. Ma, stante quanto affermato sopra, ciò significa che, oltre che verità soprannaturale, il cristianesimo potrebbe essere, per la ragione naturale, la più grande menzogna. Ma la Chiesa non tratta l’affermazione che la rivelazione cristiana sia verità soprannaturale allo stesso modo in cui tratta il contenuto di questa rivelazione, non arrivando a ritenere che anche la prima di queste due dimensioni è un atto di fede. Da qui, l’oscillazione della Chiesa, che continua a trattare l’armonia tra fede e ragione, invece che come un postulato di fede, come verità di ragione. Per la Chiesa, cioè, sarebbe “verità filosofica”, verità naturale, che il contenuto della fede cristiana formi l’orizzonte inoltrepassabile all’interno del quale la verità filosofica debba costituirsi e svilupparsi. La Chiesa è – e questo il cuore dell’ambiguità sopra citata – portata a porre l’armonia di fede e ragione come verità filosofica o naturale. Tale posizione è ciò che può consentire alla Chiesa di porre come “errore filosofico”, “superbia” ogni pensiero che si trova in contrasto con la fede cristiana.Dunque, stante tutto ciò: quanto asserivo, ossia il sostenere che «[per la Chiesa Cattolica] nel caso in cui la ragione naturale affermasse […] un qualcosa di contrario alla dottrina evangelica, il contenuto di tale affermazione non sarebbe un qualcosa di vero», rimanda sempre e comunque ad un atto di fede. Il problema, qui, risulta dunque questo: è la Chiesa stessa (per questi motivi) a volersi porre come depositaria esclusiva anche della Verità filosofica. A voler essere non solo (anche) una filosofia (senza esser ridotta a questa), ma LA filosofia. Ma, appunto per evitare quel riduzionismo di cui sopra, è sempre la Chiesa stessa ad esser costretta a negare che l’affermazione dell’armonia di fede e ragione sia una verità di ragione. L’atteggiamento della Chiesa, in questo contesto, è estremamente oscillante ed ambiguo: chi mi imputa di considerare l’insegnamento cristiano come una posizione filosofica o un orizzonte di vita tra gli altri, dunque, deve tener presente che l’oscillazione di fondo riposa nella Chiesa stessa.
  2. Proprio per quanto detto prima del punto a., io non escludo, come mi è stato imputato, la domanda evangelica su Gesù di Nazareth: “Chi credi che Gesù sia?” – Anzi: questa domanda deve essere posta. Ma, se vien chiesto di (pascalianamente) scommettere, o (più in generale) di scegliere o decidere in merito a ciò, è per un motivo ben specifico. “La Rivelazione cristiana è verità divina, soprannaturale?” Su questo bisogna decidersi, dunque. Ma perché è necessario decidersi, scommettere? Ma proprio perché, sempre con quel passo di Eb 11,1, che citavo nel mio articolo, «essendo comunque la fede, “argomento delle cose che non appaiono” (Eb 11,1), non ha la forza di mostrare con evidenza incontrovertibile (dato che le cose della fede, sebbene trovino in essa un argomento, non appaiono di per sé, continuando a restare nascoste – ed è questa la condizione di possibilità della fede in esse) l’impossibilità della propria negazione, sì che anche il contrario [di quanto affermato dalla fede] resta, di fatto, possibile». Proprio perché il contrario è possibile, perché la Rivelazione rimane “carica di mistero”, il credente è dubbioso. E deve decidere di credere.Il credente – se non crede soltanto per abitudine o consuetudine -, si trova in balia (e, stante Eb, deve necessariamente trovarsi in questa situazione!) di un “pericolo”, essendo perciò sempre la sua fede “in divenire”. Con questo, naturalmente, non intendo togliere forza ad una scelta, che può essere collocata nelle più recondite profondità di una persona, dandosi come un qualcosa di pieno, vitale, essenziale e viscerale. Ciò che di più interessante si dà con la domanda evangelica, tuttavia, a mio avviso, è la necessità della posizione della domanda stessa in quanto tale. Gesù risulta essere Verità e Testimone della verità, perciò, solo per chi crede in lui.

  • Possono delle posizioni filosofiche far rinunciare ad una fede?

Questa domanda è, di certo, parecchio delicata. Il convincimento personale di un qualcuno può essere profondissimo, e riposare in maniera estremamente radicata nella persona – rivestendo, dunque, un’importanza essenziale per il credente. Sento perciò la necessità di rimarcare in questa sede il fatto che con il presente testo (ma con nessuno dei miei articoli, a dire il vero) non ho intenzione alcuna di convertire chicchessia. Tuttavia, questa domanda mi è pur sempre stata posta, e ritengo sia degna del massimo interesse. La risposta, in questo caso, è per me “sì” secondo due differenti aspetti:

  1. Se come “posizione filosofica”, in senso esteso, possiamo considerare anche determinate forme di “fedi filosofiche” storicamente consolidatesi.
  2. Se la posizione filosofica qui citata ha la forza di mostrare la propria incontrovertibilità.

Vediamo:

  1. La fede (tout-court: non solo quella cristiano-cattolica; non solo la fede religiosa) è il volere che il mondo abbia un senso piuttosto che un altro. Essendo per essa essenzialmente impossibile mostrare la propria validità incontrovertibilmente (ossia in modo tale che la negazione di quanto affermato sia un’auto-negazione, un togliersi da sé), la fede si dà nella forma dell’imposizione e della violenza. Il rapporto di fondo tra fedi (tra le loro specificità), dunque, non può che essere conflittuale. Perciò: una fede è “vera” fintanto che è forte e signoreggia sulle altre fedi.Naturalmente, qui si sta trattando la questione in ambito teoretico: da un punto di vista politico, gli spazi per un dialogo tra fedi differenti si possono difatti aprire, e storicamente si sono aperti, su moltissimi fronti – specialmente nell’individuazione di interessi comuni, o di comuni fondamenti. Ritengo inoltre con viva passione che questo sia un ambito tutto da esplorare – in particolar modo attualmente. Tuttavia, è altrettanto evidente il fatto che i postulati di fondo delle fedi, gli assunti dogmatici fondanti, sono vere e proprie barriere rispetto a cui un approccio distensivo ed irenistico rimane essenzialmente impossibile. Resta comunque di fatto possibile che un qualcuno (anche un intero gruppo umano: essendo difatti la validità di una fede intrinsecamente legata al dominio ed al prevalere sulle fedi avversarie, ed essendo il dominio un evento sociale – sì che tanto più ampio è il riconoscimento del dominio, tanto maggiore è la sua potenza – tale discorso ha valenza, appunto, anche pubblica), un qualcuno, dicevo, possa dare il suo assenso ad una fede differente da quella di partenza proprio a partire dalla forza (capacità manifesta di convinzione, di dominio del reale, efficacia…) della “fede filosofica” che verrà abbracciata nel senso sopra descritto.
  2. D’altro canto, già anticipavo il senso che personalmente assegno al filosofare. Citando l’introduzione della edizione Adelphi de La Struttura Originaria: «La struttura originaria della necessità è innanzitutto l’apertura di senso, concretamente determinata, che non può essere negata da uomini o da dei, in alcun tempo, in alcuna circostanza, in alcun universo; e non può essere negata nel senso che la negazione di tale apertura (ossia del senso che in essa si apre) è un togliersi da sé, ossia è un mettere sé stessa dinanzi alla propria forza negativa facendosi quindi travolgere da essa. La struttura originaria è assolutamente libera dalla propria negazione – e appunto per questo è struttura della necessità –, perché è essenzialmente legata all’autonegazione della propria negazione. La necessità è tale, perché la negazione della necessità è di necessità autonegazione. […] In quanto struttura, la Necessità non è un punto semantico, ma relazione di ambiti semantici. Questi ambiti sono chiamati, ne La Struttura Originaria, “immediatezza logica” e “immediatezza fenomenologica”. […] Nella struttura originaria l’immediatezza del nesso tra i significati (=cose significanti=significare delle cose=enti) è posta come immediatezza logica (la logicità, il logo, essendo appunto il nesso tra i significati) e l’immediatezza della logicità viene chiamata “principio di non contraddizione”. L’immediatezza della notizia, ossia dell’apparire delle varie forme di nessi che uniscono i significati, è chiamata immediatezza “fenomenologica”. […] Immediatezza logica è l’immediatezza dell’identità-non contraddittorietà dell’ente in quanto ente, cioè di ogni ente, cioè della totalità dell’ente; [e] immediatezza fenomenologia è l’immediatezza dell’apparire dell’ente che appare, in quanto ente che appare, cioè di ogni ente che appare, cioè della totalità dell’ente che appare. L’identità-non contraddittoria di un certo ente, quindi, è necessaria non perché questo ente è questo ente, ma perché questo ente, come ogni altro ente, è ente» (8).Ecco che, dunque, stante questo significato assegnato ai termini Struttura Originaria, assume un senso più preciso il mio aver definito (severinianamente) la filosofia come «”apertura del sapere originario”», il mio aver affermato che «“l’insorgere originario del filosofare consiste nella presenza o coscienza della struttura originaria”», avendo asserito che «“per filosofia intend[o] originariamente l’interessamento per ciò che originariamente sta in vista”». Per atteggiamento filosofico, dunque, intendo quell’atteggiamento che giunge con rigore al fondamento inarretrabile – e per questo indimostrabile, ma non per questo contenuto di fede: quanto, piuttosto ed al contrario, perché termine di riferimento auto-evidente di ogni dimostrazione, che è appunto un riportare a tale principio auto-evidente, e che è tale – inarretrabile, auto-evidente – in quanto ad esso compete che la sua negazione, per potersi dare come tale, debba necessariamente fondarsi su di esso. La filosofia è dunque sinteticamente, per me, il sapere più radicale e fondamentale.Ora, con riferimento specifico al cattolicesimo (ma con possibilità di allargare questo discorso) e per le sue peculiarità esplicite riguardo al rapporto fede-ragione, e in quanto è la religione cui sono stato di fatto sacramentalmente introdotto: se ci si rende conto che l’affermazione che la fede è rivelazione divina e che i miracoli sono conferma ragionevole della soprannaturalità della rivelazione è essa stessa un contenuto di questa fede, e se ci si rende conto che l’affermazione dell’armonia di fede e ragione è anch’essa un postulato, un atto di fede (in quanto ha al suo fondamento l’affermazione della verità soprannaturale della rivelazione), allora è impossibile non vedere l’inquietudine di fondo del credente: l’inquietudine derivata dalla possibilità, cioè, che le cose stiano differentemente da come credute (volute) dalla fede cristiana. Il cristianesimo, cioè, come già rimarcavo, oltre che verità, potrebbe anche essere errore o menzogna. Ma, dunque, il sapere della fede cristiana – una volta che si sia assunta, da un lato, questa ri-comprensione di esso; e che si abbia riconosciuto, dall’altro, il sapere originario come struttura originaria della necessità –, non può più presentarsi, agli occhi di chi abbia presente quanto detto, come (appunto) sapere originario. Come potrebbe un qualcuno, giunto ad abbracciare un pensiero filosofico tale, continuare a guardare al Cristianesimo con gli stessi occhi?Inoltre: dal momento in cui una filosofia siffatta giungesse a risultati opposti o contrari a quelli espressi dalla Rivelazione cristiana, essa avrebbe tutto il diritto di giudicare la religione cristiano-cattolica a partire dalla verità del sapere originario. Comunque sia, in qualunque caso  ossia anche se la Chiesa non dovesse riconoscere come testimonianza della verità della struttura originaria tale pensiero filosofico –, la Chiesa non potrebbe far altro che dichiarare eventualmente una posizione filosofica simile come incompatibile con la Rivelazione, ma non potrebbe giammai escludere che la verità si possa costituire al di fuori del dominio della fede (dandosi una tale verità, in questo modo, come negazione dei contenuti della fede). Ancora con Severino: «Se l’armonia di fede e ragione è essa stessa un contenuto della fede, allora la Chiesa deve lasciarsi giudicare dalla filosofia in quanto testimonianza della verità dell’essere. La verità dell’essere giudica la Chiesa dal punto di vista della verità e la non-verità della Chiesa non può che limitarsi al riconoscimento della differenza e del contrasto tra fede e verità, e quindi al riconoscimento del proprio non essere verità. Anche se la Chiesa non riconosce che in una certa posizione filosofica si realizzi la testimonianza della verità dell’essere, tuttavia, se l’armonia di fede e ragione è essa stessa un contenuto della fede, la Chiesa deve riconoscere la possibilità che, con l’avvento di quella testimonianza, la verità si manifesti come la negazione più essenziale della fede e ne denunci la non-verità e l’alienazione» (9).

    Ma c’è di più: se, cioè, una filosofia così intesa arrivasse a mostrare l’eternità dell’ente, allora in questo mostrare rimarrebbe necessariamente negato il senso che l’Occidente (Chiesa compresa) assegna alla storicità: quello nichilistico dell’uscire dal nulla e ritornare al nulla da parte dell’essente. La Chiesa interpreta la storicità attraverso un’ontologia fondamentale. Ora, su tale ontologia fondamentale poggiano necessariamente, per esempio, il concetto di creatio ex nihilo, o l’idea che la carne del Verbo, “prima” dell’incarnazione, fosse nulla (altrimenti, l’evento dell’incarnazione non sarebbe un evento storico e temporale) (10), così come l’intera storia della salvezza: tutto questo, in piena coerenza, con quanto prima rilevavo. Tuttavia, poiché per la verità dell’essere nessun ente è nullificabile, il senso della creazione e della storicità degli eventi di incarnazione e redenzione è necessariamente considerato una parte (foss’anche eminentissima) dell’alienazione (nichilismo) dell’Occidente. Tale senso, perciò, apparirebbe a chi giungesse ad abbracciare una filosofia siffatta come una parte della storia della follia.

Simone Picenni.


  1. http://w2.vatican.va/content/benedict-xv/it/encyclicals/documents/hf_ben-xv_enc_15061917_humani-generis-redemptionem.html; http://w2.vatican.va/content/pius-xii/it/encyclicals/documents/hf_p-xii_enc_12081950_humani-generis.html
  2. Giovanni Paolo II, Fides et Ratio*: http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/encyclicals/documents/hf_jp-ii_enc_14091998_fides-et-ratio.html
  3. https://paradisiartificiali2015.wordpress.com/2015/02/27/la-mia-separazione-dalla-chiesa-cattolica/
  4. Benedetto XVI, Udienza generale del 2 Giugno 2010: http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2010/documents/hf_ben-xvi_aud_20100602.html
  5. Tommaso, Somma contro i Gentili, 1, VI.
  6. http://www.vatican.va/archive/catechism_it/p122a5p2_it.htm#
  7. Per ulteriori informazioni in merito al senso della Rivelazione nel Cattolicesimo, invito caldamente alla lettura della Costituzione Dogmatica della Divina Rivelazione “Dei Verbum” del 18 Novembre 1965, rinvenibile qui: http://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19651118_dei-verbum_it.html
  8. EMANUELE SEVERINO, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981, pp.16-17.
  9. Id, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, pp.331-332.
  10. « […] Il Figlio di Dio si è fatto uomo, come recitiamo nel Credo. Ma che cosa significa questa parola centrale per la fede cristiana? Incarnazione deriva dal latino “incarnatio”. Sant’Ignazio di Antiochia – fine del primo secolo – e, soprattutto, sant’Ireneo hanno usato questo termine riflettendo sul Prologo del Vangelo di san Giovanni, in particolare sull’espressione: “Il Verbo si fece carne” (Gv 1,14). Qui la parola “carne”, secondo l’uso ebraico, indica l’uomo nella sua integralità, tutto l’uomo, ma proprio sotto l’aspetto della sua caducità e temporalità, della sua povertà e contingenza. Questo per dirci che la salvezza portata dal Dio fattosi carne in Gesù di Nazareth tocca l’uomo nella sua realtà concreta e in qualunque situazione si trovi. Dio ha assunto [intergalmente] la condizione umana». Benedetto XVI, Udienza generale del 9 Gennaio 2013.http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2013/documents/hf_ben-xvi_aud_20130109.html*I corsivi inseriti nel corso dell’articolo sono miei.

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Pubblicato da

Simone Picenni

Filosofo di formazione, studio Logica matematica e storia e filosofia della scienza a Firenze.

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